sabato, luglio 6

Wildcalling



+ Almost Home, Polaris Rim Ring, 6 Luglio 2515


Renee è sudato fradicio quando entra in cabina. La tensione del lavoro s'è affiancata a quella emotiva, in una doppia trazione micidiale. Sfila il mauler, la cinghia abbarbicata addosso, incastrata nella fretta serrata, simile ad una serpe accanita. Scaraventa il fucile sul materasso. Butta la maglia umida di sudore per terra, come il pescatore che sfracella il polpo sullo scoglio (sicuramente Bolivar penserebbe questa immagine se avesse maggiore dimestichezza col mare). La stanza è vuota. Andrè presidia in sickbay. La nave presidia se stessa da qualcosa che a stento Renee comprende, una minaccia remota. Non può decifrare l'accaduto ma fiuta lungo i corridoi la realtà appesantirsi, deformata da una piena sull'orlo dello sbocco. Affronta tutto con coraggio, Bolivar... incluso questo, ma, sul serio quello che non si fronteggia con un fucile, o con una raffica improvvisa, quello che impiega giorni, ore a prenderti alle spalle.... Ingoia; lo spiazza.
Trascina le dita tra i capelli ruvidi, agitati dai nodi. Lo strattone con cui li aggredisce è violento, eccessivo, scorta i passi nervosi che il rocker semina a caso sul pavimento. Il respiro sposta fronti lucidi sul corpo allenato, muove le tre cicatrici marchiate a fuoco, dal fuoco dei proiettili, dentro l'addome contratto. Il respiro graffia di luce trasversale il petto ed il crocefisso, nel centro, poggiato su una stretta chiazza di pelo castano. Entrambi i palmi chiudono la faccia; strozzano il blu verticale, limpidissimo dello sguardo liquido, le labbra asserragliate attorno ad un dubbio selvaggio. Gli sfugge lo spirito dello sguardo, gli sfugge la piega della bocca, come un pesce in euforia pre-soffocamento. 
Il moto incessante a cui si sottopone è la risultante di altri moti inestinguibili (perchè tutto il moto si conserva, nonostante Renee lo ignori): le forze primarie dell'impotenza, dell'aspettativa, della confusione, dell'inadeguatezza, dell'euforia, del rammarico, della consapevolezza, della rabbia, della premura stupida, si contendono il cuore semplice di Bolivar;  un cuore semplice, vuoto di labirinti. Potresti traversarlo, cavalcare da un estremo all'altro per giorni, mesi senza incontrare un ostacolo. Una sola minaccia.
Strofina le gote, strofina gli zigomi. Strofina, strofina, per cancellare il viso come si cancella un'orma traditrice sulla rena. Butta i palmi alla parete. Ci poggia il peso. Preme la testa sullo sterno, il neon gli snocciola le vertebre, pettina la forza piena oltre la carne. Bolivar prende il respiro, Bolivar rende il respiro. Vorrebbe impilare cinque quintali di sabbia. Vorrebbe arrampicarsi allo zenit di Tribeca Point, correre dietro ad Aramis costeggiando il Potomac. Vorrebbe tirare un pugno a qualcuno. Tirarsi un pugno. Scaricare quattro caricatori di fucile dentro un blocco di pietra. Nuotare contro corrente le rapide del Mojave. Vorrebbe scopare, cristo santo. 
Tossisce. Spinge via la paratia, molla i polsi a dondolare lungo i fianchi asciutti. Rovescia il peso seduto sulla branda di Vandoosler. Tergiversa. Si sposta sulla propria. Resta fermo sei, sette secondi. Otto secondi ed è in piedi.

"Noi prendiamo ordini dall'alto comando nella persona dell'ammiraglio Renshaw, che prende ordini a sua volta dal generale John Grizzly Roscoe. Non sono qui da ieri. Io e Wright non siamo qui da ieri"

Pressa i polpastrelli alle tempie, in un caotico incidente di vene pulsanti.

Avresti voluto dirglielo. Dovuto.
Era fiducia, quella Bolivar. Era fiducia, totale. Totale. E tu... tu boccheggi, ti trascini con le unghie su una parete verticale tra lo stomaco e i polmoni. Avresti dovuto e voluto, voluto dirglielo. 
Che sei cresciuto tra la merda di vacca e di cavallo, immerso sino ai gomiti nella sabbia del meridione animale di Blackrock, spezzandoti la schiena per cinque pesos al giorno; che in guerra hai schiantato il calcio del mauler nel cranio al nemico molto prima di sapere come diavolo si facesse a fare fuoco in modalità automatica. Avresti voluto dirle cosa significhi dopo un anno nella miseria umana delle Hills, dopo centinaia di bicchieri alla strenua salute di Roscoe inghiottiti nei peggiori buchi di Kemmerer Mine, nei peggiori momenti della tua vita, sapere che tra te e Roscoe rimane solo un filo concreto di ordini telegrafici. Roscoe, quel Roscoe; e te. Renee Bolivar. Il soldato-poco-addestrato di Apache, di un pianeta in ginocchio, il settantaduesimo uomo della Blackstriped Company agli ordini di Juan Carlos Santiesteban. 

È un privilegio, Jack; poter combattere per la mia terra una guerra che la mia terra non può combattere per sé stessa. La guerra vera. Il miglio decisivo.

Inghiotte. Respira. Stringe il crocifisso nella destra; non sa quando è avvenuto, non si ricorda di aver ordinato alle dita di raggiungerlo.

Una responsabilità. Un onore. Dare ad un essere umano l'opportunità. La fiducia. La verità. Avresti dovuto dirglielo, ma non hai l'eloquenza scaltra di Vandoosler, la logica ragionevole di Mordecai, la saggezza pronta di Hale. Tanta gente che conosci dice il giusto al giusto momento. Tu no. Mai. Perciò boccheggi. E quella parete verticale tra lo stomaco e i polmoni brucia più sforzo di Prayer's Peek. 

La gratitudine selvaggia del lupo dibattuto in anni di catene a cui si regali d'improvviso un bosco sconfinato: un giorno, senza parole, senza pretendere spiegazioni, trascinerà fuori dal ghiaccio una slitta di mezza tonnellata. Ai tuoi piedi. 
Questo sei, Renee. Quel lupo. Come nel libro (una metafora!)

Il libro. 
Renee si blocca. Gli occhi accendono la faccia, asciugano il dubbio in una vampa albeggiante. Inizia a frugare tra i cenci, tra i disegni, tra i bossoli, i peli di Thiago. Il libro, il libro, il libro. Eccolo. Lo serra gelosamente tra le mani. Lo strofina con veemenza affettuosa. Si gratta la testa, con veemenza meno affettuosa. Apre. Patricia Lewis, firmato a volute ampie sul retro di copertina. Sorride. Lecca le labbra, piantato da ebete al centro della stanza.

Piangeva, ne sei certo. Stava piangendo. O qualcosa del genere. 

Bolivar si scartavetra la nuca a furia di unghie, le pendici delle scapole.

Stringeva quelle piastrine militari come fosse sul punto di perdere l'equilibrio. Eri preoccupato. Sì, lo eri. Lo sei ancora. Preoccupazione, no, troppo cerebrale. Una trepidazione protettiva, ecco.

...

Magari Jack ha sbagliato. 
Ma è un essere umano, tutti gli esseri umani sbagliano. Cristo santo, poi... per fortuna è un essere umano; se fosse soltanto un capitano, alla fine della guerra non resterebbe niente di lei, da conservare (le volevi spiegare questo, prima di ingoiarti la lingua in pancia e digerirti il cervello, Bolivar?). 
C'è modo di rimediare, di riparare, sempre. Esteban lo diceva spesso (molto spesso): "Siate fedeli al vostro capo specialmente quando sbaglia, perchè è nello sbaglio che ha più bisogno di voi e della vostra lealtà". Suonava ironico, volutamente, considerato che il capo era ovviamente lui. Ma nessuno ha mai dubitato della sincerità e della solidità di quelle parole, tra i Blackstriped arroccati sui crinali cedevoli di Serenity.

Ha il libro in mano e improvvisamente sa cosa fare. Una cosa che sa fare bene, molto bene e forse molto meglio di chiunque altro. Afferra la piccola busta di stoffa dove tiene il pezzo di sapone; la svuota, molla il sapone sul cuscino. Si butta sulla porta. La apre. Ricorda di essere a torso nudo dopo aver consumato due metri di ponte. Torna indietro, tuffa le spalle larghe dentro una canotta qualunque, appuntandosi nella stoffa lisa. Infila a rovescio. Mangia i gradini in metallo due a due, tre a tre, sino alla cambusa. Più si convince dell'idiozia del gesto, più è sicuro che funzionerà. Fruga nella dispensa, annusando scaffale per scaffale. Eccoci. Slega la corda attorno alla bocca del sacco. Ci infila la destra. Estrae un pugno di riso: una buona parte scroscia sul pavimento. Lo spazza con la suola. Infila la manciata dentro la bustina di tela. Strappa malamente, coi denti bianchi, quattro dita di spago, prima di richiudere la sporta. Ci annoda la sacchetta (con la solita difficoltà da scarsa precisione). Contempla soddisfatto, cosciente, la propria monumentale opera cretina, poggiandola sulla superficie liscia del libro. Spegne le luci, esce. Traversa il corridoio sino alla cabina 9b. 
Poggia il volume a terra. Sul volume, la bustina.
Si gratta il naso. Il riso è per Gracestone. Per tutte quelle volte in cui fai qualcosa, fai tanto e ti torna molto poco, ma in sostanziale buona fede, al meglio di chi ti ripaga. 

La sua fiducia, la verità, le possibilità, contro i tuoi silenzi balbettati da bestia antisociale. Il suo tanto, il tuo meglio. 

Scuote il capo. Strofina la faccia. La tensione lo lascia, finalmente respirare, smobilita il campo, allenta la morsa. Bolivar prende fiato nel buio ammutolito, solenne, del terzo piano. 
Ha agito. Ha operato. Adesso è pronto. Scenderà da Vandoosler per capire come sta. Da Hale, per guardarlo soffrire rappreso nel sale di se stesso. Scenderà per capire cosa diavolo sta succedendo. E vedrà di affrontarlo, capendolo o meno. 


giovedì, luglio 4

Faithfall



+ Rio Verde, Blackrock, Giugno 2510


Sono quattro. Le schiene addossate alla parete, tra la pietra e la pelle, il coat lercio di sudore, sangue  e sabbia. Tra se stessi e l'inferno, una fragile sfoglia di mattoni.
Jomi è tanto magro che a stento si vede. Il capo piegato tra le ginocchia esausto, i capelli rossi incrostati di schifo, le nocche fasciate, sfasciate,  le vertebre che premono sotto al cappotto. Il fucile verticale, alla spalla, issato come una bandiera senza vento. Immobile. Merry ha le gambe allungate sul pavimento, sui detriti e le piume dei cuscini; il ginocchio a puttane, spappolato da un perforante in cancrena, un sudario sudato copre i tratti castani. Freme di febbre. Lee è in piedi, di fianco alla finestra sfondata, le dita attorno al benson, l'orecchio all'esterno, gli occhi serrati sino a dolere, lo stesso mozzicone spento ficcato in bocca, da ore. Spreme le labbra sulla cicca, sussulta alle voci che si sollevano, inevitabili, dalla strada.
Dalle urla imbottite di sabbia, bava e pugni. Dagli ordini rabbiosi in inglese di Horyzon.
Quartiere dopo quartiere, gli avengers scoperchiano Rio Verde. Artiglieria pesante, massacro celeste. I reattori sono un morso di luce, le fusoliere saette d'acciaio che strappano l'aria fumosa, asmatica della città. Gli angeli chiusi in picchiata fanno questo rumore? Hanno il fascino orribile di creature invincibili. Il rosso del fuoco balena sulle fiancate.
Il distretto di Saint Blas ha accusato la propria ingente dose di benedizioni aria-terra. Il fronte difensivo ha ripiegato sul rione Trafalgar, su cui ora si concentra la pioggia di laser e la grandine di siluri. L'esercito alleato segue l'aviazione alleata, dove l'aviazione è già passata; visita casa per casa, alla ricerca di di uno sfogo qualsiasi per una violenza arroventata in sei mesi di offensiva massacrante. Rio Verde o morte.
Nelle orecchie delle truppe unioniste, rimbomba la maledizione sfacciata, l'anatema incrollabile dei partigiani, dei soldati di Blackrock. Rio Verde ha resistito 193 giorni, ha spezzato migliaia e migliaia di giacche blu, porta per porta, incrocio per incrocio, strada per strada. Per un centimetro, litri di sangue, per ogni metro settanta chili di carne corer. Rio Verde o morte. Quando i marines sfondano le porte macere, tra roghi, caos scheggiato, rovine, mulinelli arroventati, i marines non portano solo le loro divise, casa per casa. Portano il terrore maturato in ore infinite di imboscate notturne, portano la rabbia dei commilitoni uccisi a parsec dalla famiglia, la foga di tornare; ma soprattutto: portano la delusione incredula d'una battaglia che qualcuno, in alto, aveva venduto loro come semplice, ed è stata un massacro tra i canyons. Portano tutto questo. Portano il peggio di sé.
Rio Verde è una città fantasma. Gli uomini al fronte, le donne ed i bambini sfollati. Riempita di partigiani a Gennaio per contrastare l'avanzata delle linee nemiche. Divenuta il simbolo, divenuta il credo. Rio verde o morte.

Non possono uscire. Devono attendere soccorsi. Non hanno altre munizioni che quelle rimaste nelle loro armi. Non hanno cibo, non hanno acqua. Hanno un ferito. Non hanno dormito. Non hanno possibilità. Aspettare. Sperare, in silenzio. Il silenzio della guerra, quell'ammasso di piccoli suoni atroci senza traccia di umanità, in cui si tramuta il silenzio in assenza di silenzio reale.
Uno strillo disperato più forte degli altri fa sussultare Jonas, lo sprofonda nella stoffa ruvida dei pantaloni. Merry geme. Callaghan fissa fuori. Resiste pochi secondi. Gli vibra la faccia angolosa, mentre si aggrappa alla bandana nera legata al collo. Gira la testa, lo guarda.
Bolivar gli da la schiena, ampia, scossa dai respiri affannosi, piegata in un orrore, in una rabbia tanto trasparenti da aggredirti dentro. La testa rasata preme lo stipite della porta, lo preme, lo preme, lo preme con violenza. I denti premono sui denti, la destra aperta preme sul muro. Lee si domanda dove trovi, tutta questa energia per premere e premere. Ha trasportato in spalla Merryweather tutta la notte, tetto dopo tetto, Bolivar. Senza cedere mai. Si fa spesso certe domande, quand'è di fronte a Bolivar.
Bolivar, che saliva le montagne come niente e correva peggio del vento lungo le rive del Mojave.  Che sapeva inseguire un cavallo al galoppo. Bolivar, che perdona lo schiaffo, ma non perdona lo sputo. Nella sinistra, il mauler abbandonato lungo il fianco, il calcio strozzato dentro le unghie spaccate. La croce di Patricia oscilla dal collo teso, pulsante, nell'aria torrida di giugno.
All'esterno, le grida di aiuto diventano grida di agonia. La pressione di Bolivar genera un pugno improvviso, poi un altro pugno, che crepa l'intonaco. Jomi rizza il viso, stremato, esasperato. Lee tenta un passo, la voce rauca. Renee si volta. Gli occhi aperti, il blu fuso nelle lacrime asciutte del furore, della furia nobile dell'animale alla catena. La bocca riarsa, le guance bruciate. I lamenti salgono come fumo oltre i tetti smembrati. Cede di lato, punta lo stivale. Coraggio.
Arma il mauler. Lo schiocco metallico agita le fondamenta della realtà.

- Bolivar, che diavolo...

Renee imbraccia, indietreggia. Le urla lo sconquassano da dentro, nel suono opaco dei roghi in consunzione, delle contraereee in lontananza. Degli ordini macabri in inglese impeccabile.
Lee incalza di nuovo, in un'intimidazione simile alla preghiera. Non è stupito. Non è meravigliato. È al comando:

- Bolivar, ragiona...

Si avvicina, cerca di prenderlo per le spalle. Renee è più alto. Renee è instancabile. Si sottrae, per poco non inciampa.

- Bolivar ascolta

- Lee no.

- Ascoltami.

- Lee...

- Bolivar...

- Lee devo.

- No, tu resti. Aspettiamo i rinforzi... aspettiamo...

- Devo.

- Tu devi...

- Devo andare.

- Renee!

- Devo, devo.

- È finita.

- Io... non...

- morta, lo capisci?
                            (abbiamo perso Lee?)      

- Lasciami.      

- E' GIA' MORTA! E'
                            (abbiamo perso?)

- spostati, Lee

- FINITA!
                            (abbiamo perso...)

-DEVO ANDARE

-BOLIVAR È UN ORDINE, UN FOTTUTISSIMO ORDINE...
                             (abbiamo perso)

- devo... mi dispiace... Call... mi dispiace. Mi dispiace. 

- ... Renee

- ...

- un ordine... ti prego...non...

- ...

Renee lo fissa, indietreggia veloce.
Lee ringhia lungo i gemiti sempre più fiochi. Jonas si copre le orecchie, sino a schiacciarle.
Mi dispiace. Non dovevo lasciarlo succedere. No. Avevo promesso. Mi dispiace Lee, mi dispiace Jon, mi dispiace Eve... Clem, Pat. 
Si butta sui gradini. 

Abbiamo perso. 
Abbiamo perso la guerra.

Bolivar lo sa, d'improvviso; una rivelazione. Brilla buia come la pulsazione di milioni di nane nere. Nel caos che non ode, nel sangue che cavalca, nelle parole di Callaghan che non sente più, negli strattoni, nell'ovatta della coscienza. Nella donna che muore con i ricci sullo sterrato.

In tutte queste cose, abbiamo perso la guerra.

Sta già scendendo le scale, s'avvicina al nucleo del suono, traversa la sabbia che intride l'aria bollente. La spalla destra sbatacchia contro la parete, una nebbia stremata invade la mente.

Non stai andando lì per salvarla. No. Non è questo che vuoi, non è questo che senti. Avete perso la guerra, abbiamo perso la guerra. Rio verde cade a pezzi, Blackrock capitolerà. Quattro anni di questa lottta, quattro anni ad ingoiare la sabbia, ad ingollare il sangue, il piombo, quattro anni senza cedere, senza smettere di credere. Quanti assalti? Quanti agguati? Quante posizioni tenute? Quanti compagni? Quante miglia di artiglieria avversa traversate dietro la canna d'un mitragliatore ed una croce di qualche pollice? Quattro anni della tua esistenza e questa guerra. Apache. Non stai andando lì per salvarla. Non è salvezza che cerchi, Bolivar. Centonovantatre giorni inutili. 

Renee impatta malamente sul muro, consumate le scale. Il braccio si sfracella sul legno. Il legno lo respinge. Un bagliore mordace, candido, ritagliato oltre la porta gli strazia lo stomaco, gli spreme un acido nauseante tra lo sterno e la gola. Si mette in equilibrio, punta la canna in avanti. Le ombre, distingue le ombre nella luce. Le ombre prima nere. Poi blu.

Avete perso. Non c'è nulla da fare. Blackrock capitolerà, Blackrock abbasserà la testa, giungerà i polsi, poserà le ginocchia nel fango. Loro sono più forti. Loro vinceranno sempre. Non c'è giustizia, la giustizia che premia gli uomini coraggiosi, gli uomini senza paura, col cuore in canna. Loro sono più forti e vinceranno sempre. Hai perso la guerra. Hai perso Blackrock. Hai perso Rio Verde. Centonovantatre giorni e quattro anni. 
Rio Verde o Morte. 

Rio verde o morte. 
Traversa la linea. Allo coperto, emerge dall'edificio di corsa, senza rendersi conto che sta correndo. Senza aver deciso di correre, di scattare. Sta già scattando. È lì, a dieci, nove, otto metri dagli alleati.  Gli alleati, gli sciacalli assetati che hanno vinto la guerra e inginocchiato il suo paese. Non distingue i volti, non distingue i contorni. La forza fischia nelle orecchie, in esaurimento, in caduta libera. Il mauler scintilla tra le mani, la croce scintilla sul petto.
Oltre la finestra, nella vertigine muta della consapevolezza finale, Callaghan lo fissa. Per la prima volta lo vede gettarsi in mezzo ad una strada, gettarsi in bocca ad un pericolo e quello che pensa non è il solito amore, non è la solita audacia, non è la solita determinazione... quello che pensa è disperazione. È suicidio. Bolivar, l'irriducibile della fede, della speranza, si sta suicidando col fucile in mano.

Poi, Jomi urla.
Sorge dalle proprie dita.
Bestemmia, si alza, annaspa. Impreca. Piange, forse. Arma il benson. Barcolla, gli occhi grigi da volpe consunta, colma di rammarico, colma di odio, di lacrime troppo sincere per non scorticare la sua faccia da bastardo.

- VAFFANCULO BOLIVAR, VAFFANCULO, stronzo idiota del cazzo VAFFANCULO

Caracolla sui gradini gridando il nome di Renee tra un insulto e un singhiozzo rabbioso. Inciampa, sulle proprie suole, si aggrappa alla ringhiera coi nervi, ai nervi coi denti. Scartavetra l'anima alla ricerca di voce. Ride, del riso malato dei dissennati.

- RIO VERDE O MORTE!

Lee è sfinito, finito. Non lo richiama. Lo sente. Strofina la faccia, striscia inesorabilmente lungo la parete; conficca le unghie nei palmi anneriti dal metallo sino a bucarli. Pensa alle sue bambine. Oracle. La casa che ha costruito. Merry agonizzante. Mitchell giù per le scale, Renee giù per la strada. Un tiro spento. Sputa il mozzicone a terra.
Il sapore dei capelli di Miriam.
Inghiotte. Un segno di croce. Le piastrine militari sono al loro posto. Accanto alla foto della moglie.
Sfodera il revolver, gli ultimi cinque colpi.
E spalanca la persiana sfasciata.

Le raffiche del mauler di Bolivar esplodono qualche metro più in basso, tra lo stupore secco, rigido delle giubbe alleate. Renee ne falcia due, forse tre, in un unico, folle, ventaglio di proiettili a ripetizione. Percorre l'intero arco, un'onda agguerrita priva di logica, una bestia ferita priva di scrupolo biologico. Ci scarica tutto se stesso, assieme al caricatore. Rimane col mauler vuoto. Il corpo vuoto, in piedi al centro di Primera Street.
Silenzio.

- RENEE!

Lo scoppio delle pallottole giunge molto prima del dolore. Poi il dolore, quello bruciante, straziante, gli buca le viscere, gli squaglia lo stomaco, gli perfora l'addome. Allarga gli occhi blu verso il cielo violato dai reattori bianchi degli avengers. Diventa bianco tutto, il celeste. Il celeste diventa tutto bianco. Il bianco e il celeste cadono assieme a Bolivar, dentro a Bolivar, passando per lo sguardo che precipita.



lunedì, luglio 1

Hardsun


+ Apache / Prayer's Peek, Monterey Country, Blackrock, Giugno 2503


Non gli restava che seguire l'aquila sino alle pendici dell'alba...
Patricia siede in veranda, la camicia bianca da uomo ripiegata sulle braccia forti. Arrotola attorno all'indice la catenina d'oro, strozzando un nervosismo che non può, non vuole permettersi. Un nervosismo che le dimostra, senza appello, una mancanza di fiducia. Mancargli di fiducia, mai. No. 
Ignora l'ansia con la schiena diritta, la mascella squadrata attorno ad un'angoscia istintiva, il pollice pigiato sul bordo della pagina. 
Non gli restava che seguire l'aquila sino alle pendici dell'alba...
Deve rimanere calma. Non non esiste motivo di agitarsi. No, Patricia Clarkdale è una donna ragionevole, una donna d'un pezzo, una donna solida, tutta sangue e granito. Una donna di Blackrock.
Non gli restava che seguire l'aquila sino alle pendici dell'alba...
Sospira; innalza il cuore e lo sguardo, uno sguardo cerchiato di nero pesante, increspato su lievi rughe solari. Sta scorrendo lo stesso rigo da una serie interminabile di minuti. Non gli restava che seguire l'aquila sino alle pendici dell'alba. 
Abbandona la lettura, asciuga la fronte con un polso, la croce d'oro svicola sul petto, tra le pieghe della stoffa. Il metallo beve il mezzogiorno spietato che pialla la terra brulla di Apache, sciogliendo la polvere in miraggi acquosi. Il campo. I recinti. Le case basse, appisolate nella siesta. Il celeste feroce, la Sawatch Range, più in là la valle del Mojave. E Prayer's Peek. 
Il profilo netto di Patricia si staglia solenne nel giugno incandescente. Chiude il libro, l'indice a segnare un punto a cui è incollata dalla distrazione. Sistema senza ragione i capelli mossi, una pece morbida sui tratti duri. Rimane ferma, le narici che pulsano, le labbra aggrottate. 
La stizza per le proprie preoccupazioni pesa poco meno delle preoccupazioni in sé. Quindi pesano molto entrambe, ed entrambe dovrebbero sparire. Soffia, quasi qualcuno di fronte l'avesse indotta a dissentire, o risentirsi. Batte la sinistra in grembo, tentenna la gamba. La gola secca. Non è niente. Non ha sete. Ha sete. Si alza per procurarsi un bicchiere di qualunque cosa. La caraffa è sotto un telo umido, sulla balaustra della finestra. I tacchi degli stivali battono sul legno, urtano dentro e fuori. Scuote la testa, versa, nella gola allargata da un respiro tenace. Succo di limone, freddo. Due cucchiai di tequila. Taglia le tende asfissiate a colpo d'occhio. I bambini dormono nell'ombra, tutti quanti, tra colpi di tosse e fruscii. 

Il vento sa di sale a miglia e miglia dall'oceano. 
Inghiotte in rincorsa ripida la parete rossa, a picco su una vertigine di settecentosedici metri. L'azzurro, il bianco, la tensione dei nervi ubbidienti, la forza che esplode sotto la pelle, l'aria affilata sopra la pelle, due ali di immenso vuoto bramoso spalancate dietro la schiena, dalle scapole al suolo, dalla nuca allo schianto. La roccia tra le dita; stringere miliardi di anni in una mano, le intemperie, i capricci del tempo, tutto in un rostro di arenaria lanciato ad aggredire il cielo. 
Lo sconfinato cielo. 
Lo sconfinato sacro silenzio. 
Prayer's Peek si stende come una guglia affilata verso le nuvole, uno sfregio verticale.
Salire. 
La suola accarezza la pietra, poi la morde; una manciata di ghiaia precipita nelle sventagliate di brezza abbagliante, in una retta fatale verso l'abisso. 
Respiro, respiro. Respiro. 
I tamburi del cuore, un ritmo scaltro e veloce, su cui potresti regolare un metronomo. I tamburi d'un cuore allenato, un cuore illimitato. La maglia bianca sbandiera nelle folate a spirale, il sudore evapora prima di bagnare le ombre vivaci tra i muscoli delle braccia, delle spalle. Respiro. 
La sinistra buttata in alto, una crepa. 
I denti scorrono paralleli al muro, su, su. Ingoia. 
C'è calma pulsante, c'è pace accesa. C'è controllo. 
Il precipizio non fa paura, se sai come domarlo. 
Se hai coraggio nel sangue. Se hai la montagna nelle ossa. 
Uno spirito che suona come il vento. 
Guarda giù. 
La terra confusa in fondo al baratro. Piega il ginocchio, appunta l'anfibio; una spinta. Salire, salire. La corda avvolta al bacino contratto gli frusta le gambe. Non è legato, nessun tirante, nessuna sicurezza, salvo se stesso. 
Respiro. Respiro. 
Su. Ancora. Un altro fiotto di forza, un altro lampo. Su. 
A distanza, vola un'aquila; Renee è un punto, biancheggia intrepido sullo sperone millenario. Si muove con l'agilità e la resistenza delle creature dell'altipiano, nel mezzogiorno dilatato e accecante della Mojave Valley. L'aquila plana, danza, vibra le piume nel caldo di aprile.
La sua sagoma scura presiede la spianata. Scorre sul viso di Renee, dai tratti armonici e tenaci, dentro il suo sguardo blu. Renee la contempla, insegue la parabola, socchiude le labbra in una meraviglia che l'abitudine non consuma, che lo strapiombo non attenua. La ammira; c'è qualcosa di...qualcosa di...
Scivola.
Con un piede. 
Giù. 
Si aggrappa. Lo strattone che avvisa le fibre del corpo; allerta, le fasce sui palmi sfregano la roccia. La reazione. Il volto non cambia espressione, una contrazione; non esiste timore, nemmeno se ciondoli a settecentosedici metri dalla fine.
Appeso nel vuoto.
Lo sconfinato cielo.
Lo sconfinato sacro silenzio. 
Ingoia. Respiro. Respiro.
Respira. Respira. 

Chiude gli occhi.
Respira, respira. 
Apre gli occhi.
Piega le braccia. Su.
Recupera la presa. Aderisce ancora col corpo alla pietra. Ricomincia. 
Il vento sa di sale a miglia e miglia dall'oceano. 

Patricia distende le lenzuola ad asciugare, via via che Evelyn le passa la stoffa, pescandola da un cesto ai propri piedi. Gli spaziosi rettangoli luminosi tagliano zone candide nel pomeriggio inoltrato di Apache. Eve tiene i boccoli castani stretti in un fazzoletto, la schiena diritta nel vestito semplice. Ogni volta che si china regge l'orlo della gonna sulle caviglie. Samuel ed April corrono nello sterrato, contendendosi una bambolaccia di pezza interrata. April piange disperata. Fanno un baccano del diavolo. 
Entrambe le donne lavorano in silenzio, lisciando le pieghe della biancheria. Le mosse di Pat mostrano la fermezza risoluta della contadina, quelle di Evelyn la calma contegnosa della brava ragazza. Quarantuno anni, vent'anni. 
Patricia, ogni tanto, fissa il sole: sta calando. Sembra lo voglia rimbrottare perchè osa calare. Evelyn aggruma le labbra sottili in un cruccio adirato e sistema con vuota precisione un angolo della federa. Patricia le puntella addosso lo stesso sguardo di rimprovero rivolto al cielo. Sbuffa. Butta una mano al fianco, batte col palmo la stoffa umida.
« Oh, andiamo, Eve! L'ha già fatto altre volte »
« Mh? Io... non ho detto niente. Io. »
Evelyn la scruta, aggiustando il viso sottile come un origami orgoglioso. 
« Fai quella faccia, quella faccia lì. Levati quel broncio preoccupato »
« Non sono preoccupata. Sei tu che sei preoccupata »
« Eh? Preoccupata io? Boff... » Patricia si gira. Raddrizza sul filo un lenzuolo perfettamente diritto « Figurati... e perchè poi? Preoccupata. Preoccupata di cosa? Non c'è assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Preoccupata... ma sentitela, roba da matti »
« … » Eve abbassa il mento esile, si volta, impermalita « Sam! Restituisci subito la bambola ad April! Samuel!» 
Samuel la occhieggia, sventolando il trofeo. Ricomincia a correre, impenitente.
«... E sentiamo, di cosa ti preoccupi »
« Non sono preoccupata »
« Nemmeno io »
« … »
« … »
« Non c'è ragione di preoccuparsi »
« … Nay »
« … Passami quello... quello più piccolo, aye, quello »
« … »
« … Insomma...È una cosa che ha sempre fatto. Non gli è mai successo niente... a parte la volta... va bene, però lì è stata un'eccezione... »
« Prayer's Peek... »
« Prayer's Peek è un sasso come tutti gli altri sassi »
« Me lo ha raccontato, me lo racconta tutte le volte, mille volte... è un muro di... novecento metri. Tutto dritto, tutto liscio, specialmente da quel lato lì, non ci salgono nemmeno le lucertole, nemmeno i serpi non... »
Patricia allunga un braccio oltre il lenzuolo e acchiappa Samuel per un polso. Con un tempismo impressionante.
« Basta Sam; fila in casa, subito... guarda come ti sei conciato. Ap... Ap, vieni qui...tieni... su... su... asciugati la faccia, Miss. Margaret sta bene... guarda, ecco, vedi, sta bene, è solo sporca di sabbia » Dopo aver spedito il bambino con uno scapaccione all'interno del casolare, porge ad April la bambola (Miss.Margaret). Poi solleva la creatura al petto, sistemando la crocchia scura, mentre la piccola le strofina il naso alla camicia « Lo conosco Prayer's Peek, ed è... un sasso. Renee si arrampica su quei sassi come un gatto. Te lo ricordi quando è montato al Cantilever Point? Ha spiegato che è simile a Cantilever Point, stamani »
« Jomi dice che col Cantilever non c'entra nulla »
« Oh, ma figuriamoci. Quel bugiardo sciagurato di Mitchell. È capace di darti un somaro per un cavallo, se lo lasci chiacchierare a sufficienza »
« Anche Lee, lo dice »
« Callaghan? »
« Aye, lui »
« Cosa vuoi ne sappiano Callaghan e Mitchell del Cantilever, poi? »
« Lo dicevano l'altro giorno, parlavano di questa cosa con Renee al mercato, io ero con Mary a cercare i bottoni. Stavano appoggiati davanti a... »
« Davanti a che? »
« No, dicevo, erano lì e parlavano di come quelli che ci hanno piantato la croce su, al Prayer's, prima di piantarcela sono... » 
« Davanti al Paradis? »
« … »
« Cielo santissimo. Sta sempre a spezzarsi la schiena per tre pesos quel disgraziato e poi si fa trascinare al... »
« è morta un sacco di gente per piantare la croce sul Prayer »
« … lo dovrebbero chiudere. Ma ti pare che in una cittadina rispettabile come Oracle ci deve essere un posto simile »
« … certi giorni la pensi diversamente »
« Cosa? »
« Sul Paradis... e mi rimproveri di essere... »
« … Bé? Oggi la penso così, va bene? Non si può? Su, tieni Ap, che finisco di stendere »
« … » Evelyn prende in consegna la bambina; le sopracciglia precise spiccano una 'v' di disappunto indispettito sotto la fronte alta. Il sole si abbassa, il tempo passa. Patricia decide che stasera farà una torta. Conta porzioni abbondanti. Bolivar ha un appetito micidiale, fin da piccolo. 

Renee Bolivar è dritto accanto alla croce di frassino piantata in testa a Prayer's Peek, un punteruolo nella Mojave Valley. Il petto largo si solleva regolare, sotto la maglia gioca il fischio dell'aria raffreddata dalle gole. Sulla linea dei nervi, nel solco in mezzo alla schiena s'arrischia qualche striscia fradicia. Trentatre gradi di limpidezza assoluta. 
Renee carezza con le pupille profonde il profilo dell'orizzonte. I massicci, le crepe, gli spigoli di Blackrock. Ad ogni respiro si riempie di una forza,  una forza invisibile, indefinibile, l'intensa e viscerale adesione con le cose, quelle cose. La bellezza senza parole, la casa senza parole. Il tuo posto, oltre le parole. Sgancia la borraccia dalla cintola, beve. Asciuga la bocca sulle nocche. 
Eccolo. 
È il gusto dell'acqua, dopo novecento metri di scalata. 
Il centro pulsante della materia. L'ossigeno, quando è mancato, ha un odore diverso. 
La destra tocca il legno eroso del crocifisso. Lo tocca, con un rispetto lontano dal timore e dalla morbidezza. La pacca piena al cavallo selvatico. 
Si, scosta. Si avvicina al bordo, fa sporgere la punta delle scarpe chiodate oltre l'abisso. Ingoia. Le ciglia calano, butta la testa all'indietro, sul filo del rasoio, gli occhi bruciano di sole dentro le palpebre, i ciuffi castani si fanno frugare dalla galoppata del soffio salato. Il sapore della sabbia scottante in mezzo alle crepe, il sapore dei bordi bruciati delle foglie. Il vertice luccicante del multiverso. 
È fradicio, è felice. Pazzamente felice. Sfodera le pupille in una scossa di blu, beve lo scenario in un sbocco esplosivo di piani orizzontali, verticali, ascese cremisi. L'ombra della croce gli traversa il ventre. Si volta. Ride. Ridendo prende la rincorsa. Una, due, tre mosse; si innalza seduto all'incontro dei pali. Apre le braccia, in volo, cavalca il respiro. Sente le piume, le piume che non ha. 
Chiama le dita graffiate alla faccia e ulula al cielo, come un coyote, come uno stupido, libero grido di guerra.