sabato, luglio 6

Wildcalling



+ Almost Home, Polaris Rim Ring, 6 Luglio 2515


Renee è sudato fradicio quando entra in cabina. La tensione del lavoro s'è affiancata a quella emotiva, in una doppia trazione micidiale. Sfila il mauler, la cinghia abbarbicata addosso, incastrata nella fretta serrata, simile ad una serpe accanita. Scaraventa il fucile sul materasso. Butta la maglia umida di sudore per terra, come il pescatore che sfracella il polpo sullo scoglio (sicuramente Bolivar penserebbe questa immagine se avesse maggiore dimestichezza col mare). La stanza è vuota. Andrè presidia in sickbay. La nave presidia se stessa da qualcosa che a stento Renee comprende, una minaccia remota. Non può decifrare l'accaduto ma fiuta lungo i corridoi la realtà appesantirsi, deformata da una piena sull'orlo dello sbocco. Affronta tutto con coraggio, Bolivar... incluso questo, ma, sul serio quello che non si fronteggia con un fucile, o con una raffica improvvisa, quello che impiega giorni, ore a prenderti alle spalle.... Ingoia; lo spiazza.
Trascina le dita tra i capelli ruvidi, agitati dai nodi. Lo strattone con cui li aggredisce è violento, eccessivo, scorta i passi nervosi che il rocker semina a caso sul pavimento. Il respiro sposta fronti lucidi sul corpo allenato, muove le tre cicatrici marchiate a fuoco, dal fuoco dei proiettili, dentro l'addome contratto. Il respiro graffia di luce trasversale il petto ed il crocefisso, nel centro, poggiato su una stretta chiazza di pelo castano. Entrambi i palmi chiudono la faccia; strozzano il blu verticale, limpidissimo dello sguardo liquido, le labbra asserragliate attorno ad un dubbio selvaggio. Gli sfugge lo spirito dello sguardo, gli sfugge la piega della bocca, come un pesce in euforia pre-soffocamento. 
Il moto incessante a cui si sottopone è la risultante di altri moti inestinguibili (perchè tutto il moto si conserva, nonostante Renee lo ignori): le forze primarie dell'impotenza, dell'aspettativa, della confusione, dell'inadeguatezza, dell'euforia, del rammarico, della consapevolezza, della rabbia, della premura stupida, si contendono il cuore semplice di Bolivar;  un cuore semplice, vuoto di labirinti. Potresti traversarlo, cavalcare da un estremo all'altro per giorni, mesi senza incontrare un ostacolo. Una sola minaccia.
Strofina le gote, strofina gli zigomi. Strofina, strofina, per cancellare il viso come si cancella un'orma traditrice sulla rena. Butta i palmi alla parete. Ci poggia il peso. Preme la testa sullo sterno, il neon gli snocciola le vertebre, pettina la forza piena oltre la carne. Bolivar prende il respiro, Bolivar rende il respiro. Vorrebbe impilare cinque quintali di sabbia. Vorrebbe arrampicarsi allo zenit di Tribeca Point, correre dietro ad Aramis costeggiando il Potomac. Vorrebbe tirare un pugno a qualcuno. Tirarsi un pugno. Scaricare quattro caricatori di fucile dentro un blocco di pietra. Nuotare contro corrente le rapide del Mojave. Vorrebbe scopare, cristo santo. 
Tossisce. Spinge via la paratia, molla i polsi a dondolare lungo i fianchi asciutti. Rovescia il peso seduto sulla branda di Vandoosler. Tergiversa. Si sposta sulla propria. Resta fermo sei, sette secondi. Otto secondi ed è in piedi.

"Noi prendiamo ordini dall'alto comando nella persona dell'ammiraglio Renshaw, che prende ordini a sua volta dal generale John Grizzly Roscoe. Non sono qui da ieri. Io e Wright non siamo qui da ieri"

Pressa i polpastrelli alle tempie, in un caotico incidente di vene pulsanti.

Avresti voluto dirglielo. Dovuto.
Era fiducia, quella Bolivar. Era fiducia, totale. Totale. E tu... tu boccheggi, ti trascini con le unghie su una parete verticale tra lo stomaco e i polmoni. Avresti dovuto e voluto, voluto dirglielo. 
Che sei cresciuto tra la merda di vacca e di cavallo, immerso sino ai gomiti nella sabbia del meridione animale di Blackrock, spezzandoti la schiena per cinque pesos al giorno; che in guerra hai schiantato il calcio del mauler nel cranio al nemico molto prima di sapere come diavolo si facesse a fare fuoco in modalità automatica. Avresti voluto dirle cosa significhi dopo un anno nella miseria umana delle Hills, dopo centinaia di bicchieri alla strenua salute di Roscoe inghiottiti nei peggiori buchi di Kemmerer Mine, nei peggiori momenti della tua vita, sapere che tra te e Roscoe rimane solo un filo concreto di ordini telegrafici. Roscoe, quel Roscoe; e te. Renee Bolivar. Il soldato-poco-addestrato di Apache, di un pianeta in ginocchio, il settantaduesimo uomo della Blackstriped Company agli ordini di Juan Carlos Santiesteban. 

È un privilegio, Jack; poter combattere per la mia terra una guerra che la mia terra non può combattere per sé stessa. La guerra vera. Il miglio decisivo.

Inghiotte. Respira. Stringe il crocifisso nella destra; non sa quando è avvenuto, non si ricorda di aver ordinato alle dita di raggiungerlo.

Una responsabilità. Un onore. Dare ad un essere umano l'opportunità. La fiducia. La verità. Avresti dovuto dirglielo, ma non hai l'eloquenza scaltra di Vandoosler, la logica ragionevole di Mordecai, la saggezza pronta di Hale. Tanta gente che conosci dice il giusto al giusto momento. Tu no. Mai. Perciò boccheggi. E quella parete verticale tra lo stomaco e i polmoni brucia più sforzo di Prayer's Peek. 

La gratitudine selvaggia del lupo dibattuto in anni di catene a cui si regali d'improvviso un bosco sconfinato: un giorno, senza parole, senza pretendere spiegazioni, trascinerà fuori dal ghiaccio una slitta di mezza tonnellata. Ai tuoi piedi. 
Questo sei, Renee. Quel lupo. Come nel libro (una metafora!)

Il libro. 
Renee si blocca. Gli occhi accendono la faccia, asciugano il dubbio in una vampa albeggiante. Inizia a frugare tra i cenci, tra i disegni, tra i bossoli, i peli di Thiago. Il libro, il libro, il libro. Eccolo. Lo serra gelosamente tra le mani. Lo strofina con veemenza affettuosa. Si gratta la testa, con veemenza meno affettuosa. Apre. Patricia Lewis, firmato a volute ampie sul retro di copertina. Sorride. Lecca le labbra, piantato da ebete al centro della stanza.

Piangeva, ne sei certo. Stava piangendo. O qualcosa del genere. 

Bolivar si scartavetra la nuca a furia di unghie, le pendici delle scapole.

Stringeva quelle piastrine militari come fosse sul punto di perdere l'equilibrio. Eri preoccupato. Sì, lo eri. Lo sei ancora. Preoccupazione, no, troppo cerebrale. Una trepidazione protettiva, ecco.

...

Magari Jack ha sbagliato. 
Ma è un essere umano, tutti gli esseri umani sbagliano. Cristo santo, poi... per fortuna è un essere umano; se fosse soltanto un capitano, alla fine della guerra non resterebbe niente di lei, da conservare (le volevi spiegare questo, prima di ingoiarti la lingua in pancia e digerirti il cervello, Bolivar?). 
C'è modo di rimediare, di riparare, sempre. Esteban lo diceva spesso (molto spesso): "Siate fedeli al vostro capo specialmente quando sbaglia, perchè è nello sbaglio che ha più bisogno di voi e della vostra lealtà". Suonava ironico, volutamente, considerato che il capo era ovviamente lui. Ma nessuno ha mai dubitato della sincerità e della solidità di quelle parole, tra i Blackstriped arroccati sui crinali cedevoli di Serenity.

Ha il libro in mano e improvvisamente sa cosa fare. Una cosa che sa fare bene, molto bene e forse molto meglio di chiunque altro. Afferra la piccola busta di stoffa dove tiene il pezzo di sapone; la svuota, molla il sapone sul cuscino. Si butta sulla porta. La apre. Ricorda di essere a torso nudo dopo aver consumato due metri di ponte. Torna indietro, tuffa le spalle larghe dentro una canotta qualunque, appuntandosi nella stoffa lisa. Infila a rovescio. Mangia i gradini in metallo due a due, tre a tre, sino alla cambusa. Più si convince dell'idiozia del gesto, più è sicuro che funzionerà. Fruga nella dispensa, annusando scaffale per scaffale. Eccoci. Slega la corda attorno alla bocca del sacco. Ci infila la destra. Estrae un pugno di riso: una buona parte scroscia sul pavimento. Lo spazza con la suola. Infila la manciata dentro la bustina di tela. Strappa malamente, coi denti bianchi, quattro dita di spago, prima di richiudere la sporta. Ci annoda la sacchetta (con la solita difficoltà da scarsa precisione). Contempla soddisfatto, cosciente, la propria monumentale opera cretina, poggiandola sulla superficie liscia del libro. Spegne le luci, esce. Traversa il corridoio sino alla cabina 9b. 
Poggia il volume a terra. Sul volume, la bustina.
Si gratta il naso. Il riso è per Gracestone. Per tutte quelle volte in cui fai qualcosa, fai tanto e ti torna molto poco, ma in sostanziale buona fede, al meglio di chi ti ripaga. 

La sua fiducia, la verità, le possibilità, contro i tuoi silenzi balbettati da bestia antisociale. Il suo tanto, il tuo meglio. 

Scuote il capo. Strofina la faccia. La tensione lo lascia, finalmente respirare, smobilita il campo, allenta la morsa. Bolivar prende fiato nel buio ammutolito, solenne, del terzo piano. 
Ha agito. Ha operato. Adesso è pronto. Scenderà da Vandoosler per capire come sta. Da Hale, per guardarlo soffrire rappreso nel sale di se stesso. Scenderà per capire cosa diavolo sta succedendo. E vedrà di affrontarlo, capendolo o meno.